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Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è un disturbo psichiatrico caratterizzato, come suggerisce il nome stesso, da ossessioni e compulsioni. Le ossessioni sono pensieri, immagini, impulsi, fantasie vissuti dal soggetto come pericolosi, inaccettabili, peccaminosi, sconvenienti e pertanto generatori di ansia/disgusto e di comportamenti compulsivi, mentali o materiali, che il soggetto si sente costretto a mettere in atto per tranquillizzarsi. Nella maggioranza dei casi, i soggetti con DOC presentano sia ossessioni che compulsioni, sebbene queste possano non essere evidenti all’esterno e pertanto definite “covert” (contare mentalmente, pregare, ripetere formule), ma in una percentuale di soggetti possono essere presenti solo ossessioni , definite ossessioni pure, o solo compulsioni, sia mentali, sia materiali (controllare, lavarsi/lavare, ordinare, ecc). Le compulsioni, messe in atto in risposta al disagio provocato dalle ossessioni, mantengono e rinforzano la sintomatologia ossessiva.
Esistono diverse forme di DOC e le persone potrebbero sperimentarne più di una contemporaneamente o in momenti diversi della vita. Le diverse tipologie di DOC, sebbene possano distinguersi per il contenuto delle ossessioni, condividono la
Le persone che soffrono di DOC possono temere di contaminarsi con oggetti sporchi/disgustosi o germi che spesso viene gestito con frequenti lavaggi, temere di provocare danni a se stessi ma soprattutto a terze persone che porta spesso a controlli ripetuti, temere di perdere il controllo dei propri impulsi diventando aggressivi, blasfemi, perversi, violenti, avere dubbi sui sentimenti provati nei confronti del partner e sull’adeguatezza della loro relazione, sul loro orientamento sessuale, non poter fare a meno di ordinare e sistemare gli oggetti secondo un ordine e una disposizione stabilita, considerata “giusta/ben fatta”.
Il trattamento del DOC
Il gold standard treatment per il DOC, ovvero il trattamento considerato più efficace e indicato dagli organismi scientifici internazionali è la terapia cognitive-comportamentale, la quale integra tecniche comportamentali, come l’Esposizione con Prevenzione della Risposta (ERP) e dalla ristrutturazione cognitiva. Nel primo caso il terapeuta cerca di portare il paziente, in modo molto graduale e rispettando i tempi e il grado di tollerabilità del paziente, a esporsi a ciò che procura ansia e/o disgusto astenendosi, o almeno posticipando, la messa in atto delle compulsioni. In questo modo, ripetendo l’esposizione si verificherà la riduzione dell’ansia/disgusto fino ad arrivare all’estinzione. Ad esempio, persona con sintomi ossessivi legati ai germi viene esposta allo stimolo ansiogeno e viene invitata a sforzarsi di non mettere in atto il suo rituale di lavaggio, aspettando che l’ansia svanisca spontaneamente. Gli interventi cognitivi sono necessari per modificare certe credenze e pensieri irrazionali che sono particolarmente presenti in persone affette da DOC, come un senso di responsabilità ipertrofico, l’eccessiva importanza attribuita ai pensieri, la convinzione di poter controllare i propri pensieri. In alcuni casi è possibile affiancare al trattamento psicoterapeutico una terapia farmacologica, soprattutto nei casi in cui la depressione secondaria al DOC o il rimuginio ossessivo sono di intensità tali da rendere difficile il lavoro terapeutico stesso. I farmaci più largamente usati per la cura di questo disturbo sono gli antidepressivi triciclici, in particolare la Clomipramina (Anafranil) e, in epoche più recenti, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), i quali si associano a una minor presenza di effetti collaterali. A volte le due classi di farmaci vengono somministrate in combinazione, altre volte vengono scelte altre categorie farmacologiche, come i neurolettici di ultima generazione, quali Zyprexa (Olanzapina), il Seroquel (Quietapina), Risperdal (Risperidone).
Nel campo delle dipendenze relazionali il concetto di “narcisista perverso o patologico” non descrive una patologia della personalità, ma una modalità di costruire rapporti sentimentali all’insegna del controllo del partner e del disimpegno dal rapporto. Ciò vuol dire che il narcisista perverso non può essere considerato necessariamente un soggetto patologico; è piuttosto un individuo che adotta strategie congruenti col proprio obiettivo di base: alimentare la sicurezza di sé a scapito dell’altro e con un investimento minimo. Rispetto alle sue “vittime”, che ricercano una relazione amorosa intensa e durevole, il narcisista nutre indifferenza. Se sollecitato al confronto, può reagire con fastidio o rispondere con violenza. Dal proprio punto di vista privo di empatia, il narcisista perverso non può comprendere a appieno le esigenze dell’altro e vive le sue richieste come indebite e illegittime. Fare lo sforzo di capire e di ascoltare lo metterebbe nella sgradevole posizione di rinunciare al controllo e alla supremazia sulla partner. Per questo, chi si ostina nella relazione con un narcisista perverso non ha alcuna speranza di riuscita e, senza accorgersene, si sta impegnando in un atto auto-lesionista e sterile. Nessuna azione, nessuna persuasione, nessun sacrificio, cambiamento o strategia muterà il narcisista perverso in un Principe Azzurro. Eppure l’ossessione che avviluppa le vittime e che le soggioga a volte per anni, a volte per tutta la vita, è quella di essere sostituite da donne più belle e più capaci di farsi amare.
All’inizio della relazione il narcisista perverso tende a celare l’irrequietezza e l’intolleranza con cui osserva l’altro. Ma, mano a mano che il rapporto prosegue, il narcisista perverso conquista spazi di manovra sempre più ampi e sottopone la partner a conflitti o umiliazioni di intensità crescente, come a voler misurare il proprio potere. Le reazioni disperate della vittima lo rassicurano e lo gratificano. A tratti può commuoversi per lo stato di prostrazione in cui riduce la compagna e cercare di “rimediare” con qualche coccola e promesse di cambiamento. Queste condotte riparatorie non fanno che confondere la vittima e alimentare la sua dipendenza, perché fomentano l’illusione amorosa.
Chi rimane impigliata/o nella dipendenza affettiva con un/ una narcisista perverso/a viene inizialmente sedotto dalla sicurezza con cui il/la partner sembra sceglierli. Subito dopo, però, scatta la tagliola dell’ambivalenza e dell’incostanza, l’alternanza disperante di silenzi e di attacchi che caratterizza questo tipo di dipendenze amorose. L’ambiguità della comunicazione narcisistica è tale da offrire infiniti spunti perché la vittima la interpreti in modo egocentrico, secondo il proprio sistema di valori e le proprie aspettative. La sfida più complessa per chi precipita nel vortice della dipendenza affettiva da un narcisista perverso è imparare a tradurre secondo un altro sistema di riferimento, un diverso modello di realtà, messaggi che sembrerebbero incoraggiare la relazione e che invece perseguono il solo scopo di congelarla in un comodo e disimpegnato “equilibrio” che gratifichi l’immagine grandiosa del narcisista. Ciò che sprofonda il partner del narcisista è innanzitutto la difficoltà a individuare con chiarezza l’inutilità delle proprie azioni all’interno del rapporto e il rassegnarsi all’idea che qualunque cosa farà, sarà sbagliata. Non c’è modo, infatti, di accendere l’amore nell’altro. Anche quando il narcisista sembra avvicinarsi, ritornare sui suoi passi, anche quando sembra amare teneramente sta manipolando. E basta. Manipola perché non tollera di perdere il controllo, di essere abbandonato e, soprattutto, di essere smascherato nella sua incapacità affettiva. Ed ecco il primo errore da evitare: tentare di smascherare il partner ponendolo davanti al suo egoismo, all’incostanza, alla ferocia dei suoi silenzi, alla violenza delle sue sparizioni. Pur di mantenere integra l’immagine positiva di sé, il narcisista si difenderà persuadendo la partner di essere inadeguata e pazza e giustificando i propri comportamenti come reazioni alla sua pochezza. Oppure si adeguerà temporaneamente alle richieste della vittima al solo scopo di dimostrarle che ha torto, per poi tornare repentinamente alle usuali modalità sadiche e anaffettive. In questo quadro, ogni tentativo di smascheramento finisce per perpetrare lo schema della relazione e alimentare l’ossessione. Per uscirne davvero occorre abbandonare l’esigenza di ottenere dall’altro scuse e ammissioni e prendere la decisione di agire con autonomia. Sarà solo il primo passo, perché quando il narcisista perverso sente che la preda si allontana si attiva per ricatturarla ed è capace di ricomparire anche a distanza di mesi o di anni pur di ristabilire il suo potere. Per farlo può ricorrere alla richiesta di chiarimenti, tentare la carta dell’amicizia o riproporsi in modo seduttivo attraverso il love bombing. Il secondo errore da evitare è accettare di “chiarire” la situazione faccia a faccia, nella consapevolezza che si tratti di una trappola per continuare il massacro. Per la vittima è una decisione difficile perché, più o meno consciamente, subisce con stupore il fascino del riavvicinamento di qualcuno che credeva la disprezzasse e che, all’improvviso, assume un atteggiamento interlocutorio sulla relazione. La parola d’ordine è “No”. Non vedersi, non “chiarire” nulla, non avere più nulla a che fare con l’altro, almeno finché il percorso di liberazione e di emancipazione dalla dipendenza affettiva non sia compiuto.
Il terzo errore da evitare è mantenere aperta la comunicazione col narcisista perverso. Niente sms, Facebook, nessun contatto diretto o indiretto (no contact) sono le chiavi per superare l’astinenza affettiva e concludere per sempre la relazione. Infatti, non si può “guarire insieme” dalla dipendenza affettiva quando è attivata dal narcisismo, non può in alcun modo essere un percorso congiunto, ma è il frutto di una elaborazione individuale della “vittima” che, sulla base del riconoscimento degli schemi dell’altro, conclude con determinazione e coraggio che l’unione in cui si era cimentata fosse realmente impossibile.
Il dipendente affettivo finisce per concentrarsi completamente su di sé, sui propri “errori”, sul proprio dolore, perdendo di fatto la percezione realistica del “soggetto” che “ama”, “soggetto” che diventa oggetto, totem, utopia. Nulla di simile all’originale narcisista, instabile e a propria volta gravemente avulso dalla realtà e dalla relazione. Nella mente del narcisista l’altro non esiste, non esiste come interlocutore, non esiste come persona, ma è solo specchio e strumento per convalidare la propria immagine e arricchire una narrazione egocentrica, grandiosa, che necessita di vittime da sacrificare alla propria personalità despota e sovrana.
Il narcisista e la sua partner sono due ciechi incapaci di vedersi l’un l’altro, condannati a presupporre l’esistenza di un “amore” che è soltanto la proiezione terrificante dell’incapacità di amare qualcuno all’interno di una realtà psicologica diversa: congiunta, appagante, condivisa e progettuale.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale può aiutare la persona, uomo o donna che sia, ad uscire da una relazione di dipendenza affettiva con un/una narcisista patologico/a, partendo dalla comprensione del proprio funzionamento psicologico e dai fattori cognitivi, emotivi e comportamentali che mantengono e rafforzano la dipendenza. La psicoterapia può essere di grande aiuto anche per i soggetti affetti da un disturbo narcisistico di personalità.
La relazione tra l’ansia sociale dei bambini e l’ipercontrollo genitoriale percepito è stato ben stabilito dalla letteratura scientifica. Caratterizzato dall’ipercoinvolgimento genitoriale, l’ipercontrollo dei bambini si ritiene che derivi dai tentativi dei genitori di proteggerli da ogni possibile fattore di stress. Sebbene l’intenzione sia buona, sostituendosi alle responsabilità che i bambini sarebbero in grado di assumersi in modo autonomo, i genitori potrebbero inavvertitamente incoraggiarli a diventare eccessivamente dipendenti o mettere in atto evitamenti che portano alla mancanza di autonomia o all’ansia nei contesti sociali. Proteggere i figli da nuove e potenzialmente stressanti esperienze, sebbene possa essere di aiuto nel breve periodo, potrebbe aprire loro la strada di successivi fallimenti sociali. L’ipercontrollo genitoriale delle attività quotidiane dei bambini limita la possibilità per loro di fare nuove esperienze e questo potrebbe essere un fattore particolarmente importante nello sviluppo dell’ansia sociale, che implica disagio e paura intense nei contesti sociali nuovi. La relazione tra l’ipercontrollo genitoriale e la paura che insorge nei contesti sociali e relazionali è stata confermata sia nell’infanzia che nella prima adolescenza.
La ragione alla base della limitazione dei genitori dell’autonomia dei bambini socialmente ansiosi, potrebbe essere collegata alle preoccupazioni per i loro figli. Preoccuparsi o focalizzare l’attenzione su possibili minacce future è una comune strategia di regolazione delle emozioni che potrebbe portare a un aumento dell’ansia. Alcuni genitori potrebbero iniziare a preoccuparsi in modo esagerato del benessere dei loro bambini socialmente ansiosi, il che potrebbe provocare comportamenti eccessivamente controllanti che, successivamente, possono essere modellati dai bambini. I genitori potrebbero inavvertitamente seguire i loro figli con eccessiva preoccupazione, aumentando così l’ansia sociale dei bambini nel tempo. Infatti, i genitori socialmente ansiosi tendono ad avere bambini socialmente ansiosi. Gli studiosi hanno suggerito che i bambini ansiosi apprendono che il mondo è un posto pericoloso dove potrebbero aspettarsi conseguenze negative per il loro comportamento e diventare sempre più paurosi ed evitanti come risultato.
La relazione di attaccamento instaurata con i genitori e lo stile educativo utilizzato influenza la formazione di credenze positive o negative sul mondo, su noi stessi e sugli altri; in caso di ansia sociale le convinzioni centrali sono spesso legate a temi di incapacità, inadeguatezza, non amabilità, sugli altri come critici, giudicanti, abbandonici, indisponibili e sul mondo come un luogo pericoloso. La terapia cognitivo-comportamentale in questi casi aiuta l’individuo a ristrutturare tali credenze e a esporsi a quelle situazioni sociali che evita a causa del disagio sperimentato. In caso di bambini e di adolescenti, coinvolgere i genitori diviene una parte fondamentale del trattamento per aiutarli a comprendere e modificare quegli aspetti del loro stile educativo che mantengono e rinforzano i sintomi del figlio.
Il binge eating, il consumo incontrollato di una grande quantità di cibo in un arco di tempo di due ore, è un sintomo diffuso nei disturbi alimentari, che può avere effetti dannosi sulla salute fisica e mentale delle persone, come un aumentato rischio di obesità e di altri disturbi psichiatrici. E’ un sintomo chiave sia della bulimia nervosa che del disturbo da alimentazione incontrollata, o binge eating disorder in inglese, ma può essere presente anche nell’anoressia nervosa o in altri disturbi della nutrizione o dell’alimentazione, in accordo con il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (APA; DSM-5, 2013). Una migliore comprensione dello sviluppo e del mantenimento delle abbuffate è importante per ridurne gli effetti negativi e, inoltre, questo potrebbe contribuire alla prevenzione e al trattamento dei disturbi alimentari. La ricerca ha evidenziato che diversi fattori cognitivi, affettivi, psicologici e di personalità rappresentano dei fattori di rischio per lo sviluppo di questi disturbi e contribuiscono al loro mantenimento. Un modello che spiega lo sviluppo e il mantenimento delle abbuffate afferma che il perfezionismo porta gli individui a impegnarsi in una dieta rigida ed estrema che, a sua volta, provoca le abbuffate (Sherry & Hall, 2009; Mackinnon et al., 2011). Secondo questo modello la relazione tra perfezionismo e binge eating è mediata dalla dieta restrittiva, ovvero la tendenza a ricercare rigidamente la perfezione e a non tollerare l’errore o “il meno perfetto” è probabile che porti le persone a impegnarsi nella dieta seguendo regole rigide, estreme e numerose che prevedono l’esclusione di alcuni cibi (definiti “tabù” perchè potenzialmente ingrassanti), rigidi limiti calorici, il digiuno, il mangiare entro una certa ora, e così via, che porteranno inevitabilmente all’abbuffata, per fame, per desiderio impellente (craving) di tutto ciò di cui è stato privato forzatamente l’organismo, soprattutto se in contemporanea si verificano eventi che provocano emozioni negative, le quali vengono gestite attraverso l’abbuffata. IL perfezionismo può essere definito come un tratto di personalità (una caratteristica stabile delle persone) che caratterizza quelle persone che si sforzano di ottenere il livello più alto possibile di standard e aspettative, evitando contemporaneamente errori e imperfezioni. Per una persona perfezionista, la dieta può essere un comportamento da seguire secondo degli standard rigidi di perfezione e dove l’immancabile fallimento delle aspettative (es. “avrei dovuto evitare il dolce, invece non ho resistito, tanto vale che mi abbuffi e mangi tutti i dolci del buffèt”) scatena l’abbuffata, come tentativo di scappare da uno stato emotivo interno spiacevole e doloroso. Pertanto la restrizione dietetica indurrebbe le abbuffate attraverso una deprivazione percepita che porta a un’ iperalimentazione compensatoria. A questo proposito è utile distinguere due tipi di restrizioni dietetiche: una restrizione dietetica calorica (assumere con la dieta un contenuto calorico al di sotto del fabbisogno fisiologico) e una restrizione dietetica cognitiva (le regole alimentari che devono essere seguite). Questa seconda caratteristica, sebbene possa essere associata a un normopeso e/o a un regime alimentare non restrittivo da un punto di vista calorico/alimentare, è un fenomeno cognitivo che riveste un ruolo importante nel mantenimento delle abbuffate e pertanto deve essere affrontato e ridotto nel trattamento.
Un altro fattore che potrebbe essere rilevante per il binge eating è l’ansia sociale. La letteratura scientifica supporta l’associazione tra disturbi alimentari e ansia sociale. Otrovsky et al. ( 2013) hanno trovato che individui obesi con un disturbo da alimentazione incontrollata (DAI) avevano più elevate percentuali di ansia sociale in comorbidità rispetto alla popolazione generale o a individui obesi senza DAI.
Una specifica forma di ansia sociale che è stato dimostrato essere associata sia alla bulimia nervosa che all’anoressia è l’ansia per il proprio aspetto sociale, ovvero il timore di un giudizio globale sul proprio aspetto che sembra influenzare e mantenere nel tempo il disturbo e che quindi deve essere discusso all’interno di un trattamento (Dakanalis et al., 2016; Levinson & Rodebaugh, 2012; Levinson et al., 2013).
La terapia cognitivo-comportamentale rappresenta il gold standard per il trattamento di questi disturbi, affrontando i meccanismi cognitivi, affettivi e comportamentali che mantengono i sintomi del disturbo. Accanto a fattori comuni a tutti coloro che hanno un disturbo alimentare (dispercezione corporea, restrizione dietetica alimentare e/o cognitiva, check del peso e del corpo, sensazione di grassezza, pensieri distorti sul cibo, peso e corpo, ecc) ci sono differenze individuali legate a specifici tratti o veri e propri disturbi di personalità in comorbidità, livelli diversi di gravità nella regolazione emotiva, nel controllo e perfezionismo che devono essere prese in considerazione sia per poter individualizzare il più possibile il trattamento, sia per poter regolare la relazione terapeutica e lavorare anche in ottica di prevenzione delle ricadute nel lungo periodo.
Se un individuo è capace di amare positivamente, ama anche se stesso;
se può amare solo gli altri non ama affatto
ERICH FROMM, L’arte di amare
Il titolo di questo articolo è ripreso da un libro famosissimo “Donne che amano troppo”, scritto da Robin Norwood, psicoterapeuta americana che si occupa di dipendenze, dalle più tipiche e conosciute come la dipendenza da alcol e altre droghe, a quella forse meno riconosciuta dai non addetti ai lavori come forma di dipendenza, ma che invece può essere fonte di grandi sofferenze, “la dipendenza affettiva” o “love addiction”. La tendenza ad amare troppo, restando inchiodate in relazioni insoddisfacenti, non rispondenti ai nostri bisogni di amore, cura, attenzione o avere estrema difficoltà a troncarle sembra essere un fenomeno prevalentemente femminile, sebbene esistano anche uomini caratterizzati da questa forma di dipendenza.
I fattori storico-culturali giocano un ruolo importante in questo senso; il ruolo della donna è stato confinato per millenni a quello di cura dei figli e della casa, le è stato trasmesso di generazione in generazione che è debole e bisognosa di protezione (da parte della figura maschile), che è fragile, paurosa, dipendente. Per quanto certi insegnamenti siano oggi superati, sono ormai entrati a far parte dell’inconscio collettivo femminile condizionando il modo in cui la donna può vivere la relazione affettiva con un uomo.
Quando si ama troppo?
Quando l’amore da esperienza appagante, di gioia e di pienezza si trasforma in un qualcosa che ci fa soffrire, ci ossessiona e ci impedisce di vivere appieno la nostra vita. Quando essere innamorate significa soffrire, allora stiamo amando troppo; quando sistematicamente tendiamo a giustificare l’indifferenza, il malumore, il cattivo comportamento o i tradimenti del partner, stiamo amando troppo; quando tendiamo ad attribuirci la colpa di non essere abbastanza attraenti o affettuose di fronte a comportamenti del partner che ci hanno offese e ferite, allora stiamo amando troppo. Cosa c’è dietro questo attaccamento morboso a qualcuno che non può o non è disposto a darci l’amore che con tanta fatica e dolore proviamo a rincorrere? La Norwood ritiene che ci sia la paura, paura di restare sole, paura di non essere sufficientemente amabili, paura di essere ignorate o abbandonate. Il modo di porsi in relazione di una tipica donna che “ama troppo” è quello di controllare l’altro rendendosi assolutamente necessaria, la convinzione è che concentrandosi sui bisogni dell’altro e facendo di tutto per compiacerlo, l’altro non potrà più fare a meno di lei. E’ importante mettere in evidenza come accanto ad una donna che ha bisogno che qualcuno abbia bisogno di lei, c’è sempre un uomo che ha bisogno di qualcuno che accetti di essere responsabile per lui, in un gioco o “danza relazionale” dove entrambe le parti partecipano con ruoli, bisogni, paure specifiche, attivando un ciclo interpersonale che si autoalimenta reciprocamente.
La dipendenza affettiva in una relazione di per sé non è patologica. E’ assolutamente normale, in particolare durante la fase dell’innamoramento, che ci sia un certo grado di dipendenza e fusione con il partner. Il desiderio di dipendenza dovrebbe diminuire con lo stabilizzarsi del rapporto lasciando nella coppia una piacevole percezione di autonomia. Chi manifesta i sintomi della dipendenza affettiva, invece, ha un desiderio di fusione che si mantiene inalterato nel tempo.
Anche se la dipendenza affettiva non viene considerata nei manuali diagnostici come una vera e propria patologia, essa può raggiungere una forma così estrema da diventare patologica e presentare caratteristiche simili alla dipendenza da uso di sostanze.
La paura della donna che ama troppo da dove si origina? Si origina dal disvalore personale, da una sfiducia nella propria capacità di essere amata e accettata per quello che è, che la porta a ricercare all’esterno da sé (nell’uomo) conferme che non è in grado di dare a se stessa. Ovviamente tale ciclo interpersonale si autoalimenta in una dinamica senza soluzione, perché più la donna si sacrifica e lotta per salvaguardare il rapporto con un uomo indisponibile, distante, maltrattante, che non ricambia l’amore, più lui continuerà a perpetuare distanza, non amore, indifferenza, dando vita ad una rigida cristallizzazione di ruoli.
Partendo dal presupposto che non esiste disturbo in ambito psicologico/psichiatrico determinato da un unico fattore, ma sono sempre la relazione tra temperamento di base e esperienze di vita a determinare un eventuale esito psicopatologico, sembra che una donna che ama troppo abbia fatto esperienza nell’infanzia e nell’adolescenza di un ambiente familiare che, per motivi diversi, non è stato in grado di rispondere a bisogni fondamentali di amore, cura, sicurezza, empatia, accettazione incondizionata, espressione spontanea dei propri bisogni. Dai traumi con la T maiuscola quali abusi fisici e sessuali, al mancato soddisfacimento di bisogni fondamentali di ogni essere umano, i quali passano anche attraverso un’eccessiva rigidità familiare, dove l’obbedienza alle regole e la punizione severa di fronte alla loro trasgressione, diventa strumento disciplinare principe, da una mancanza o un deficit nella capacità empatica, nel calore affettivo, e così via. Famiglie conflittuali, rifiutanti, fredde affettivamente o che mostrano atteggiamenti, valori, comportamenti contraddittori di fronte al figlio rendono difficile promuovere in lui la capacità di fare affidamento sulle proprie percezioni e sui propri bisogni e di utilizzarli come guida per fare scelte in linea con i propri desideri.
Le esperienze relazionali vissute nelle prime fasi di sviluppo tendono a riproporsi anche nella vita adulta se non accettiamo di affrontarle ed elaborarle, capendo che se erano utili quando si sono formate in quello specifico contesto familiare, oggi ci rendono schiavi di una lotta affannosa senza possibilità di vittoria. Un percorso terapeutico può essere utile per quelle persone che sistematicamente hanno a che fare con partner che sembrano non poterle mai rendere felici per un motivo o per un altro. Il punto di partenza è scegliere di assumersi delle responsabilità sviluppando una relazione con se stessi perché “ nessuno può amarci abbastanza da renderci felici se non amiamo davvero noi stessi, perché quando nel nostro vuoto andiamo cercando l’amore, possiamo trovare solo altro vuoto”.
A cura di Laura Marchi
Il termine ansia è entrato nel linguaggio comune ed è solitamente associato a uno stato negativo di apprensione di fronte ad una situazione percepita come minacciosa e verso la quale non sentiamo di avere le risorse necessarie per fronteggiarla.
In verità l’ansia di per sè non è un fenomeno patologico, anzi è un’emozione che si è rivelata molto utile per la nostra sopravvivenza, in quanto è legata all’attivazione del sistema di allarme del nostro organismo e ci avvisa della presenza di un pericolo, preparando l’organismo a difendersi attraverso la messa in atto strategie di attacco-fuga nei confronti della minaccia. L’ansia è un’emozione di base e, così come le altre emozioni, svolge una funziona importante per il nostro adattamento; è caratterizzata da diversi cambiamenti che avvengono in ognuno di noi, ti tipo cognitivo, affettivo, fisico e comportamentale che, in certi casi, possono assumere un carattere patologico per durata e intensità.
I sintomi cognitivi, fisici e comportamentali dell’ansia
Tra i sintomi cognitivi dell’ansia ci sono:
- sensazione di testa vuota
- difficoltà di concentrazione e di memoria
- presenza di immagini, pensieri , ricordi negativi
- sensazione di allarme e pericolo costanti
- sensazione marcata di essere al centro dell’attenzione degli altri
Tra i sintomi fisici compaiono:
- tachicardia
- sudorazione
- tremori
- nausea
- depersonalizzazione/derealizzazione
- formicolii
- vertigini
Tra i sintomi comportamentali troviamo tutti quei comportamenti che le persone in genere mettono in atto per avere un sollievo dall’ansia e sono:
- evitamento della situazione che percepita come minacciosa (strategia “meglio prevenire che curare”)
- ricerche di rassicurazioni
- comportamenti protettivi (farsi accompagnare, portare con sè l’ansiolitico o assumerlo al bisogno).
Quando l’ansia diventa un sintomo: la paura della paura
I sintomi dell’ansia possono essere interpretati in modo catastrofico come segni di qualcosa di grave (es. un attacco cardiaco) generando in questo modo un aumento del livello di ansia e dei sintomi fisici ad essa associati attivando un circolo vizioso, la “paura della paura” che può arrivare sino al panico. Se l’ansia è un’emozione che ci aiuta a mantenere uno stato di attivazione ottimale dell’organismo per poter affrontare prestazioni lavorative, scolastiche (es. un esame), sportive e per prepararci ad affrontare eventuali pericoli mobilitando le risorse del corpo, può diventare eccessiva o ingiustificata rispetto alle situazioni, portando a conseguenze negative su un piano prestazionale, relazionale, soggettivo, perdendo quindi la sua funzione positiva. E’ proprio in questo caso che si parla di disturbo d’ansia.
Tra i disturbi d’ansia più diffusi troviamo:
- Disturbo d’ansia generalizzata
- Disturbo d’ansia sociale
- Disturbo di panico e agorafobia
- Fobie specifiche (aereo, spazi chiusi, cani, insetti, ecc).
Psicoterapia cognitivo-comportamentale per la cura dell’ansia
La psicoterapia cognitivo-comportamentale è il trattamento di elezione per molti disturbi, come confermano molti studi scientifici che ne hanno dimostrato l’efficacia rispetto ad altri interventi psicologici e, in molti casi, anche alle terapie farmacologiche. Il modello cognitivo alla base di questo approccio terapeutico afferma che la sofferenza emotiva è il risultato del modo in cui le persone danno significato agli eventi, dei pensieri negativi che formulano in modo rigido e sistematico. Pensieri, emozioni e comportamenti si influenzano reciprocamente in un circolo vizioso che si autoalimenta. L’obiettivo della psicoterapia è quello di identificare e ristrutturare tali pensieri alla base delle reazioni di ansia del soggetto e modificare i comportamenti che mantengono e alimentano il disturbo, come ad esempio l’evitamento delle situazioni percepite come minacciose. La terapia cognitivo-comportamentale si pone l’obiettivo di ridurre la sintomatologia in un tempo relativamente breve.
Qua parte prima sotto-finestra
Disturbo d’ansia sociale o fobia sociale
Il disturbo d’ansia sociale o fobia sociale è caratterizzata da ansia o paure marcate relative a situazioni sociali in cui l’individuo è esposto al giudizio negativo o al possibile esame degli altri. La paura di chi soffre di tale disturbo è quella di comportarsi di fronte agli altri in modo imbarazzante e di ricevere giudizi negativi. Spesso si accompagna all’evitamento di situazioni sociali in cui si sperimenta ansia, come quelle in cui si deve fare qualcosa di fronte ad altre persone (scrivere, mangiare, esporre una relazione, entrare in una stanza dove sono già tutti seduti). Una caratteristica di questo disturbo è l’ansia anticipatoria, ovvero l’ansia che precede le situazioni temute caratterizzata da continui rimuginii su ipotetici esiti sociali catastrofici. E’ importante distinguere l’ansia sociale dalla timidezza che è un tratto della personalità che non comporta particolari problematiche. Il disturbo d’ansia sociale tende a cronicizzarsi se non trattato, con conseguenze negative a livello personale, relazionale e prestazionale.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale si è dimostrata efficace nel trattamento dell’ansia sociale e si pone l’obiettivo di modificare le convinzioni irrazionali o disfunzionali del soggetto come ad esempio la convinzione che mostrare ansia sia un segno di debolezza oppure la convinzione di essere sempre attentamente osservati dagli altri (fenomeno del “public self”). Queste convinzioni si attivano quando la persona entra in un contesto sociale in cui si espone a un possibile giudizio degli altri, facendo aumentare l’ansia. La terapia mira a mettere in discussione tali pensieri e a insegnare abilità per poter gestire l’ansia nei contesti sociali (mindfulness, tecniche di rilassamento).
Chi è affetto da un disturbo d’ansia sociale tende a sperimentare ansia marcata in una o più delle seguenti situazioni:
- partecipare ad attività in piccolo gruppo
- parlare con qualcuno che ha una posizione di autorità
- incontrarsi con persone sconosciute
- esprimere disaccordo o disapprovazione a qualcuno che si conosce poco
- restituire della merce in negozio
- scrivere o lavorare mentre si è osservati
- sottoporsi a un esame
- andare a una festa
- bere con altri in pubblico
qua altra sotto-finestra
Disturbo di panico: sintomi e cura
Un attacco di panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale il soggetto sperimenta una serie di sintomi:
- palpitazioni, cardiopalma o tachicardia
- sudorazione
- tremori fini o grandi scosse
- dispnea o sensazione di soffocamento
- dolore o fastidio al petto
- nausea o disturbi addominali
- sensazione di vertigine, di instabilità, di “testa leggera” o di svenimento
- brividi o vampate di calore
- parestesie (sensazione di torpore o formicolio)
- derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi)
- paura di perdere il controllo o di impazzire
- paura di morire
Un singolo episodio di attacco di panico, vissuto come improvviso e inaspettato, in alcuni casi può innescare la paura di nuovi attacchi, la cosiddetta “paura della paura” responsabile dell’instaurarsi di un circolo vizioso che si autoalimenta e che spesso si accompagna all’agorafobia, ovvero l’ansia di trovarsi in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi o nei quali potrebbe non essere disponibile un aiuto in caso di attacco di panico. Di conseguenza, il soggetto che soffre di un disturbo di panico evita tali situazioni o le affronta solo se accompagnato da un familiare, creando quindi una situazione di dipendenza dalle figure familiare, costrette a stare vicine al paziente.
La terapia cognitivo-comportamentale è la terapia di prima scelta per la cura del disturbo di panico, è controindicato affidarsi ai farmaci senza che siano affiancati da un trattamento psicoterapico di questo tipo. Il lavoro si concentrerà sulla ristrutturazione dei pensieri catastrofici (avrò un infarto, sverrò, farò cose sconvenienti e perderò il controllo, ecc) in modo che la persona impari a interpretare le sensazioni fisiche per quelle che sono, segnali del corpo del tutto innocui e a interrompere l’escalation del panico smettendo di temerle. E’ importante aiutare il paziente ad esporsi gradualmente alle situazioni temute, contrastando in questo modo l’evitamento, comportamento che mantiene il disturbo e alle sensazioni temute attraverso esercizi di esposizione enterocettiva, facendo in modo che il soggetto riprenda a svolgere le attività (sport, spostamenti da solo in macchina, ecc) che ha interrotto a causa del panico
A chi non è mai capitato di rimanere ‘coinvolto’ in catene di pensieri negativi e ripetitivi senza riuscire a fermarsi?
La tendenza a rimuginare, infatti, rappresenta un’esperienza comune dell’essere umano e non è necessariamente associata a disturbi affettivi o a conseguenze negative sul benessere psicologico; ciò che tende a variare molto all’interno della popolazione generale è la frequenza e l’intensità con la quale le persone si dedicano a questa attività mentale. La distinzione tra rimuginio normale e patologico può essere fatta su base quantitativa e non qualitativa; pertanto coloro che hanno un’elevata tendenza a rimuginare si impegnerebbero con maggiore frequenza e durata in questa attività mentale, sperimentandone gli effetti negativi sullo stato affettivo e la performance, rispetto a coloro considerati ‘rimuginatori normali’. Il rimuginio rappresenta la caratteristica centrale del Disturbo d’Ansia Generalizzato, caratterizzato da ansia e apprensione eccessive, che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi, relative ad una quantità di eventi o di attività.
Il rimuginio è definito come un processo mentale o uno stile di pensiero ripetitivo, verbale, astratto che si riferisce a possibili eventi negativi futuri e a strategie per impedire che tali minacce avvengano. Le caratteristiche centrali sono quindi la natura prevalentemente verbale del rimuginio, ovvero non sono presenti immagini mentali dettagliate.
In chi tende a rimuginare molto, sono presenti credenze cosiddette ‘positive’ sui vantaggi e l’utilità del rimuginio stesso (‘preoccuparmi mi aiuterà ad evitare pericoli o catastrofi future’) e credenze negative (la preoccupazione è incontrollabile e può essere pericolosa per la salute fisica e/o mentale; ‘se continuo a preoccuparmi in questo modo impazzirò’) e queste credenze contribuirebbero al suo mantenimento.
Alla base della tendenza a rimuginare è presente l’intolleranza all’incertezza, ovvero la difficoltà ad accettare l’assenza di certezza e la natura ipotetica probabilistica e di molti eventi della nostra vita. Chi si preoccupa eccessivamente deve continuare a farlo fino a quando l’incertezza, rispetto ad una situazione che non è ancora avvenuta ma che potrebbe verificarsi, non si è risolta, ma data la natura ipotetica ed astratta del rimuginio, risulta impossibile azzerare il dubbio e quindi smettere di rimuginare.
Alcuni ricercatori hanno sviluppato l’ipotesi che il rimuginio dipenda da differenze individuali rispetto all’intolleranza dell’incertezza, per cui coloro che sono particolarmente intolleranti nei confronti dell’incertezza, tendono a preoccuparsi maggiormente nel tentativo di risolverla.
E’ possibile intervenire da un punto di vista psicologico su questo meccanismo ricorsivo del pensiero con le più recenti tecniche di terapia cognitivo-comportamentale di terza generazione (mindfulness, detached-mindfulness, defusione cognitiva) e intervenendo sulle credenze che mantengono il rimuginio che, sebbene venga vissuto come automatico e fuori controllo dalla persona, può essere interrotto con notevoli benefici sulla quota ansiosa e sul senso di autocontrollo personale.
L’International Association for the Study of Pain (IASP, 1979) definisce il dolore come un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associate a danno tissutale in atto o potenziale, o descritta in termini di danno. Come si evince dalla definizione dell’ IASP, il dolore è il prodotto di due componenti, la componente percettiva (o nocicezione) che consente la ricezione e il trasporto al SNC di stimoli potenzialmente lesivi per l’organismo e quella esperienziale (del tutto privata e soggettiva) che è lo stato psichico collegato alla percezione di una sensazione dolorosa. In questa seconda componente entrano in gioco fattori emozionali, cognitivi, socio-culturali e comportamentali che determineranno la reazione del tutto peculiare dell’individuo all’esperienza dolorosa stessa.
Per dolore cronico s’intende “un dolore che persiste più a lungo del corso naturale della guarigione che si associa a un particolare tipo di danno o di malattia” (Bonica, 1953). Mentre il dolore acuto è considerato un sintomo di una malattia sottostante, il dolore cronico presenta caratteristiche tali da poter essere definito esso stesso una malattia.
Nell’esperienza medica il dolore cronico rappresenta una tra le manifestazioni più importanti della malattia; inoltre, fra i sintomi, è quello che tende a minare maggiormente la qualità di vita. Una sua gestione errata o del tutto assente crea conseguenze fisiche, psicologiche e sociali molto importanti e, se si calcolano le giornate lavorative perse, comporta un’importante ricaduta economica. Se a queste considerazioni si aggiunge il fatto che la forma di dolore più invalidante, quella cronica, colpisce circa il 25-30% della popolazione, si comprende come l’assistenza di questo aspetto clinico sia una vera e propria priorità per il nostro sistema sanitario.
Le principali cause di dolore cronico sono malattie come i tumori, in quel caso parliamo di dolore oncologico, malattie reumatiche come la fibromialgia, l’artrite reumatoide, l’osteoartrosi, lesioni ai nervi e danni muscolari che non riescono a raggiungere una guarigione completa. Comunemente vengono distinti due tipologie di dolore cronico a seconda della localizzazione del danno:
- Dolore nocicettivo, quando è legato ad un danno dei tessuti (es. osteoartrosi)
- Dolore neuroepatico, quando associato ad una disfunzione del sistema nervoso centrale (es. nevralgia)
Tale distinzione è importante ai fini della terapia, in quanto i farmaci utilizzati per il dolore nocicettivo, come i FANS, non sono efficaci sul dolore neuropatico, per il quale possono invece essere indicati farmaci antidepressivi o farmaci antiepilettici come il gabapentin.
Il dolore ha una funzione fondamentale per la sopravvivenza sia nell’uomo che nell’animale, in quanto svolge la funzione di segnale di allarme rispetto alla necessità di intraprendere un’azione (attacco/fuga) a seguito di un’aggressione o di un danno all’integrità fisica. I nocicettori sono presenti nella totalità degli organismi viventi non vegetali e sono deputati a segnalare la presenza di stimoli dolorifici, sono pertanto fondamentali per la sopravvivenza. Quando il dolore diventa cronico, viene meno la sua funzione biologica di segnale d’allarme utile per la sopravvivenza e diventa esso stesso causa di sofferenza.
Trattamento del dolore cronico
Sebbene numerosi approcci siano attualmente disponibili per il trattamento delle diverse forme di dolore cronico, sembra che gli analgesici più potenti attualmente disponibili non riducano il dolore di oltre il 30-40% in non più del 50% dei pazienti (Turk, 2002). Di conseguenza, approcci psicologici complementari che possano aiutare i pazienti affetti da dolore cronico a relazionarsi con il dolore in maniera più adattiva e flessibile, appaiono quanto mai necessari.
Tale necessità appare particolarmente importante se considerata nel contesto delle recenti evidenze scientifiche che suggeriscono come la relazione che un soggetto ha con la sintomatologia dolorosa influenzi l’intensità e le limitazioni correlate al dolore stesso.
Ci sono diverse evidenze di efficacia dell’Acceptance and Committment Therapy (ACT) – una forma recente di terapia cognitivo comportamentale – nel trattamento del dolore cronico (McCracken et. al., 2005). Vowles & Sorrell (2007) hanno creato un protocollo ACT di gruppo per il trattamento del dolore cronico strutturato in 8 incontri, che si propone di insegnare diverse abilità che hanno tutte l’obiettivo di modificare il rapporto che le persone hanno con il proprio dolore, dando loro l’opportunità di iniziare a vivere una vita dignitosa, in linea con ciò che conta davvero per loro. Le abilità che vengono insegnate sono le abilità di mindfulness, accettazione e defusione. La mindfulness è la capacità di porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Si tratta, cioè, di dirigere volontariamente la propria attenzione a quello che accade nel proprio corpo e intorno a sé, momento dopo momento, ascoltando più accuratamente la propria esperienza e osservandola per quello che è, senza valutarla o criticarla. La defusione è una delle componenti fondamentali dell’ACT. Imparare a defondere dai propri pensieri, significa imparare a prendere distanza da essi, smettendo di trattarli come verità assolute o come guida dei nostri comportamenti. Le tecniche di defusione non servono per eliminare o controllare il dolore, ma per essere presenti nel qui e ora, in un modo più ampio e flessibile. L’idea è quella di imparare a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso. Imparare a relazionarsi in modo più flessibile, disponibile e accettante nei confronti del proprio dolore, significa eliminare quella parte di sofferenza psichica derivante dalla continua lotta con la propria esperienza dolorosa, e poter quindi beneficiare di un notevole miglioramento in termini di qualità di vita.
Nel 2003 la Società Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) ha stimato che circa il 20% della popolazione mondiale soffre di qualche forma di dolore cronico, includendo il dolore oncologico, quello post-chirurgico o post-traumatico e quello muscolo-scheletrico. In questo ultimo gruppo, la fibromialgia o sindrome fibromialgica riveste un ruolo importante, rappresentando una delle cause più frequenti di dolore cronico diffuso di tipo muscolo-scheletrico. Oltre al dolore, nella fibromialgia sono spesso presenti altri sintomi sia fisici sia di natura psicologica come astenia, disturbi del sonno, ansia, depressione, difficoltà di concentrazione e attenzione, parestesie, disturbi gastro-intestinali, rigidità soprattutto al risveglio e altri ancora a carico di diversi organi e apparati. Insieme al dolore diffuso, questi sintomi concorrono al peggioramento della qualità di vita dei pazienti.
Il Italia è stato stimato che la fibromialgia colpisce circa 1,5 milioni di persone e in modo particolare le donne (rapporto maschi: femmine risulta di 1:9). Non è ancora chiaro il motivo di questa differenza di genere, ma è stato ipotizzato che dipenda da una diversa interazione nei due sessi tra fattori genetici, biologici, psicologici e socio-culturali. La prevalenza della fibromialgia aumenta con l’età, raggiungendo il picco nella fascia d’età tra i 40 e i 70 anni.
La fibromialgia spesso confonde poiché alcuni dei suoi sintomi possono essere riscontrati in altre condizioni cliniche. La diagnosi viene posta dal reumatologo secondo i criteri dell’American College of Rheumatology (ACR); essi includono la presenza di dolore cronico diffuso (che interessa cioè tutto il corpo) e dolorabilità alla pressione di almeno 11 punti specifici del corpo, definiti Tender Points, su 18. Al di là dell’esame obiettivo dei tender points, la diagnosi dipende principalmente dai sintomi che il paziente riferisce, come il dolore, l’astenia, il sonno non ristoratore, deficit cognitivi e così via.
L’eziologia della fibromialgia risulta ad oggi sconosciuta, ma ciò che si può affermare con relativa certezza è la sua natura multi-fattoriale, nel senso che diversi fattori di natura biologica, psicologica e sociale interagiscono tra loro influenzandone insorgenza e decorso. Questo inquadramento permette di concettualizzare la fibromialgia come il risultato dell’interazione tra le esperienze di vita avverse, la capacità di gestione dello stress e i meccanismi di processazione e modulazione del dolore a livello del sistema nervoso centrale. In altre parole, la suscettibilità alla FM sembrerebbe dovuta a un’ iperattivazione del sistema dello stress geneticamente determinata, la quale, interagendo con esperienze precoci negative e fattori ambientali causa di distress, esiterebbe in alti livelli di stress fisico e psicosociale e nell’insorgenza della malattia.
La terapia farmacologica può dare risultati soddisfacenti, sebbene solo una percentuale limitata di pazienti risponda in modo efficace al trattamento. Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia di approcci psicologici di tipo cognitivo-comportamentale nel trattamento della fibromialgia, in modo particolare quelli basati sulla meditazione mindfulness, definita come la capacità di prestare attenzione in modo intenzionale e non giudicante al momento presente (Kabat-Zinn, 1990).
Attraverso la meditazione è possibile acquisire la capacità di relazionarsi al dolore e agli altri sintomi in maniera più adattiva e flessibile, in modo da ridurre l’impatto che essi hanno nella vita dei pazienti migliorandone in questo modo la qualità di vita. Il libro di Ciro Conversano e Laura Marchi, “Vivere con la fibromialgia. Strategie psicologiche per affrontare il dolore cronico”, offre le informazioni scientifiche più aggiornate riguardo alle caratteristiche, alle cause e alle possibilità di cura della fibromialgia, e accompagna il lettore passo per passo, attraverso esercizi e file audio per le meditazioni, in un percorso di auto-aiuto psicologico che lo aiuterà ad affrontare più efficacemente il dolore, con conseguenti miglioramenti della propria qualità di vita.