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L’obesità è una condizione medica cronica diffusa in tutto il mondo, soprattutto quello occidentale, spesso associata a complicanze mediche di una certa gravità e a mortalità prematura. Si definisce sulla base dell’indice di massa corporea (BMI≥30). E’ stato stimato che i grandi obesi rischiano di morire circa 20 anni prima; l’obesità è responsabile di più di 2,5 milioni di morti all’anno in tutto il mondo (WHO, 2002). Oltre ai rischi per la salute fisica, questa condizione medica è associata anche a una ridotta qualità di vita e a compromissioni della salute psicologica e sociale. Il pattern alimentare delle persone affette da obesità è caratterizzato dalla dieta e da un rigido controllo dell’alimentazione per un certo periodo, interrotto ripetutamente da perdite di controllo sul cibo con le abbuffate, alimentazione compulsiva, ma anche da alimentazione eccessiva non compulsiva con cibi e bevande altamente calorici.
L’obesità è una condizione con eziologia multifattoriale, fattori genetici, comportamentali, culturali e sociali sono alla base del suo sviluppo. Detta più semplicemente è necessario avere una predisposizione genetica all’obesità per poterla sviluppare, ma perchè si manifesti davvero sono necessarie altre condizioni, tra cui uno stile di vita non sano improntato alla sedentarietà e ad un eccessivo introito energetico. I nostri antenati, cacciatori-raccoglitori, sono stati programmati per poter sopravvivere alle carestie; coloro che riuscivano ad assimilare e conservare energie nei periodi di fame sopravvivevano alla selezione naturale. Questi geni sono in parte responsabili del sovrappeso e dell’obesità diffuse.
La domanda che mi voglio porre in questo articolo è la seguente: l’obesità può essere considerata un disturbo alimentare? La risposta è no. Ci sono differenze ma anche intersezioni tra le due condizioni; in una percentuale non trascurabile di casi le due condizioni si sovrappongono nella stessa persona, giustificando la diagnosi di disturbo da alimentazione incontrollata, ma non sempre è così. In molti altri casi le differenze tra obesità e disturbi alimentari sono marcate; nel primo caso la distribuzione tra i sessi e le varie età è pressocchè identica, mentre nel secondo la prevalenza è più alta nel genere femminile e in età adolescenziale. Inoltre, nell’obesità è necessario promuovere un controllo costante dell’introito calorico e del peso corporeo, mentre nei disturbi alimentari è necessario contrastare la sorveglianza continua di questi aspetti.
Le cure sia nell’obesità, sia nei disturbi alimentari devono essere multidimensionali, multiprofessionali, attente al versante nutrizionale, alle complicanze mediche e ai fattori psicologici e socio-ambientali.
Ad oggi, il trattamento d’elezione, empiricamente supportato, per l’obesità associata al disturbo da alimentazione incontrollata è la terapia cognitivo-comportamentale, la CBT-OB (Disturbo da Binge-Eating associato all’Obesità), che coniuga insieme lo scopo di aumento del controllo sull’alimentazione e cessazione delle condotte di abbuffate e la perdita di peso necessaria per la salute. Il trattamento prevede 6 mesi di trattamento intensivo mirato al cambiamento nello stile di vita (dieta moderatamente restrittiva basata sui principi della dieta mediterranea) e aumento dell’attività fisica (utilizzo del contapassi e sessioni di esercizi di tonificazione) e un anno di mantenimento del peso con follow-up mensili.
Il Disturbo da Binge-Eating (BED) è un disturbo dell’alimentazione caratterizzato da episodi di abbuffate oggettive non seguiti da mezzi di compenso, come vomito auto-indotto, uso di lassativi, esercizio fisico intenso o digiuno, cosa che invece caratterizza la bulimia nervosa. I tentativi di restringere l’alimentazione per modificare peso e forma del corpo tra un’abbuffata e l’altra sono meno elevati rispetto a quelli presenti nella bulimia nervosa, anche se spesso sono presenti periodi anche lunghi di dieta. L’alimentazione al di fuori delle abbuffate tende ad essere sregolata ed eccessiva, caratterizzata dall’assunzione di cibi ad alta densità calorica (ricchi di grassi saturi, zuccheri e sale), grandi porzioni, il piluccare frequentemente fuori dai pasti.6 La sensazione di perdita di controllo è l’elemento centrale delle abbuffate; la persona non riesce a smettere di mangiare una volta iniziato, anche se arriva ad essere spiacevolmente piena, nè si sente in grado di non iniziare una volta che l’impulso è partito, indipendentemente dai segnali di fame e sazietà, che risultano alterati. Le abbuffate avvengono in segreto a causa della vergogna con la quale la persona le vive. In circa il 50% degli individui con il BED è presente un’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, aspetto che rende più grave il quadro psicopatologico, spesso caratterizzato da depressione, intensa autocritica, bassa autostima, disturbi psicologici in comorbidità (disturbi d’ansia, disturbo bipolare, ecc). Spesso questo disturbo si associa all’obesità, sebbene è importante ricordare che non tutte le persone affette da obesità ne soffrano, e a condizioni somatiche come malattie cardio-metaboliche, diabete di tipo 2, ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, ipertensione arteriosa. Gli individui con BED sono angosciati dal loro comportamento alimentare, non sono contenti di come appaiono e si sentono e, spesso, hanno una bassa autostima. Queste caratteristiche possono compromettere il funzionamento psicosociale e influire negativamente sulla loro qualità di vita fisica e psicosociale.
A differenza dell’anoressia nervosa e della bulimia, dove il rapporto femmine maschi è sbilanciato a favore delle prime (9:1), nel BED il rapporto tra i sessi è più bilanciato (6:4) e l’età d’insorgenza è mediamente più tardiva, tarda adolescenza e prima età adulta.
Fino ad oggi i trattamenti psicologici che si sono impiegati hanno portato alla remissione degli episodi di abbuffata in circa la metà dei pazienti, accompagnata dal miglioramento della sintomatologia depressiva associata e della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione (Hilbert et al., 2019). Purtroppo il maggior svantaggio di questi trattamenti è che generalmente non producono un calo di peso significativo (Cooper et al., 2019). A questo proposito è stato proposto di recente un nuovo trattamento, che si propone di superare questi limiti aiutando le persone con BED a raggiungere un calo di peso salutare, che varia dal 5 al 15% di calo di peso ponderale. Il trattamento è la terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo da Binge-Eating Associato all’Obesità (CBT-BO; Dalle Grave, Sartirana, Calugi, 2020), un trattamento che mira ad individuare e intervenire sui fattori di mantenimento delle abbuffate e dell’alimentazione eccessiva e sregolata e a sull’eccesso di peso attraverso una restrizione dietetica moderata e flessibile.
Con disturbi del comportamento alimentare ci si riferisce a disturbi caratterizzati da un’eccessiva valutazione di peso, forma del corpo e alimentazione come nucleo centrale e specifico. Questo significa che le persone che ne soffrono dipendono in modo estremo da conferme esterne per potersi attribuire un valore personale, valore che è già danneggiato prima che il sintomo si manifesti. Il punto è proprio questo, la ricerca estenuante di un certo peso, di una certa forma del corpo e di una dieta alimentare auto-imposta rigida ed estrema, sono tutti tentativi, per loro stessa natura fallimentari oltre che nocivi, di correggere una immagine nucleare di sè negativa, di scarso valore personale, di indegnità, non amabilità. Questo meccanismo non può avere fine se non attraverso un trattamento psicoterapico specifico dove si va a lavorare proprio sull’immagine interna danneggiata, perchè è quella che genera dolore e che spinge a mettere in atto tentativi di coping che si autoperpetuano, rafforzando l’illusione che solo attraverso una dieta migliore, un maggior impegno, una ferrea volontà il dolore scomparirà. La verità è che al dolore si aggiunge altro dolore, quello che deriva dal sottopeso (nell’anoressia nervosa) con tutti i sintomi da malnutrizione, dalle abbuffate (un esito frequente di periodi di grande restrizione) o il sintomo principale se si soffre di Binge Eating e Bulimia Nervosa, dalla rinuncia a tutte quelle dimensioni dell’esistenza che danno gioia, vitalità e piacere come le relazioni, gli hobbies, scopi di vita sentiti come propri.
Il lavoro con questa tipologia di pazienti prevede la presenza di uno psicoterapeuta.
e di un nutrizionista e, nel caso di pazienti più giovani, anche di un supporto specifico per i familiari che devono apprendere gli atteggiamenti e i comportamenti più efficaci da tenere con il figlio affetto da disturbo alimentare, soprattutto nella gestione dei pasti, momenti carichi di grande stress per tutto il contesto. A seconda del livello di gravità del disturbo si può optare per un trattamento ambulatoriale, ambulatoriale intensivo o di ricovero.
Guarire si può, è un percorso complesso, impegnativo, faticoso, ma è molto più faticoso restare schiavi di un disturbo che, a poco a poco, spegne e priva della voglia di vivere.
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Pur non amando le generalizzazioni, spesso fuorvianti e difficilmente applicabili alla complessità delle relazioni umane, con questo articolo proverò a delineare dei pattern relazionali che ho avuto modo di riscontrare con più frequenza nella mia pratica clinica. Esistono sia uomini che donne sofferenti a causa di relazioni non appaganti, talvolta abusanti (emotivamente), con soggetti affetti da un disturbo narcisistico di personalità dalle quali non riescono a sganciarsi, nonostante tutto.
Il primo match relazionale è quello tra narcisista e disturbo dipendente di personalità. Una classica tipologia che si forma sulla base del fatto che la persona dipendente ha convinzioni radicate di scarso valore personale e difficoltà a sostenere scopi di vita autonomi, pertanto necessita della relazione per sostenere autostima e iniziativa. Lo scenario temuto è infatti proprio l’abbandono, vissuto con terrore, al punto che si sottomette al partner in una compiacenza coatta e accetta le sue critiche e il suo disprezzo proprio per evitarlo. Il partner narcisista avrà in una relazione del genere la possibilità di esercitare il suo dominio e veder soddisfatte le sue pretese, che si alimenteranno sempre di più, anche per l’effetto che producono nella relazione, ovvero una sempre maggiore compiacenza. L’autostima già precaria della dipendente finirà per peggiorare sempre di più. La domanda chiave da fare in terapia è: Ma perché hai scelto questo partner? Perché continui a starci nonostante la sofferenza? Perché stai così male di fronte alla possibilità di perderlo, di fronte alle sue critiche, al suo silenzio, ? Come mai ha tutto questo potere dentro di te? Qua si tratta di curare la dipendenza patologica, dare valore alla propria esperienza interna.
Seconda tipologia è l’incontro tra narcisista e narcisista. Non è infrequente che si incontrino un narcisista e una narcisista che vivono momenti idilliaci della relazione (sensazione di aver trovato l’anima gemella, l’amore ideale tanto sognato, soprattutto nella fase iniziale della relazione), destinati a confrontarsi con la realtà e quindi a fare spazio a critiche feroci, litigi e distacco relazionale. Spesso la partner parla del narcisismo del compagno, senza riconoscere che ha lo stesso modo di funzionare. Anche qua si tratta di lavorare sul proprio narcisismo.
Terza tipologia quella che vede uniti in relazione narcisista e borderline. Chi è affetto da un disturbo borderline di personalità è caratterizzato da frequenti e repentine oscillazioni dell’umore che si ripercuotono nella relazione che viene letteralmente vitalizzata (cosa di cui il narcisista si nutre per non sentire il vuoto) da sentimenti di grande amore, passione, idealizzazioni, ma anche di rabbia, richieste di rassicurazioni continue che la border agisce di fronte alla paura dell’abbandono, frequentemente attivata nella relazione con un soggetto narcisista che, di tratto, tende a distaccarsi e a raffreddarsi maggiormente di fronte alle proteste della border.
Uscire da una relazione affettiva che crea sofferenza è possibile, anche se a volte è necessario per riuscirci l’aiuto di un terapeuta. Il punto è lavorare per comprendere, dare valore e legittimità alla propria esperienza interna, ai propri scopi di vita, ai propri bisogni. Riconoscere come la sofferenza di oggi è simile a quella del passato, ma si può modificare dando risposte diverse. Un primo passo da fare è quello di smettere di interrogarsi sul perché dei comportamenti del partner, dei suoi silenzi, delle sue critiche e cominciare a riportare il focus su se stessi, perché io passo così tanto tempo a chiedermi cosa ha in testa lui? Perché do così tanto potere a lui di ferirmi? Il cambiamento parte da qui….sempre…DA SE STESSI.
Il campo delle diete e dell’alimentazione è ricco di informazioni che arrivano da molti canali diversi: social media, televisione, riviste, esperti o presunti tali che propongono diete innovative che promettono dimagrimenti miracolosi in tempi record, alimentando la speranza che questo sia possibile e che finalmente questa sarà la volta buona. Troviamo di tutto, dalla dieta chetogenica, alla dieta Zona, Atkins, Tisanoreica, e così via e tutti condividono in linea di principio una riduzione giornaliera della percentuale di carboidrati previsti dalla dieta mediterranea, a vantaggio di grassi e proteine. Le diete a basso contenuto di carboidrati hanno una lunga storia: gli olimpionici greci 2000 anni fa mangiavano molta carne per migliorare la performance sportiva; nel 1863 un opuscolo a cura del dr. Banting dal titolo Letter on Corpulence, Addressed to the Public incoraggiava una dieta di carne, verdura, frutta per perdere peso che è diventata la base sulla quale vengono impostate le più moderne diete iperproteiche che hanno avuto grande popolarità a partire dagli anni ’70. La verità è che le linee guida delle più importanti società scientifiche internazionali raccomandano una lenta e graduale perdita di peso che dovrebbe variare tra 0,5 e 1 kg alla settimana, un monitoraggio costante dell’alimentazione, del peso e dell’attività fisica e l’adozione di una dieta flessibile che comprenda la giusta proporzione di tutti i nutrienti principali (carboidrati, proteine e grassi), limitandone le quantità in modo da creare un bilancio energetico negativo necessario per poter perdere peso. La parola chiave diventa la sostenibilità della dieta, ovvero l’adozione di uno stile alimentare che possa essere portato avanti nel lungo termine senza particolari restrizioni dietetiche, in modo da poter mantenere l’eventuale peso perso, cosa che spesso non viene garantita da diete fortemente restrittive e sbilanciate, che sono oltretutto spesso il fattore precipitante di un disturbo alimentare. Una metanalisi di 29 studi che indagano la perdita di peso a lungo termine evidenzia come più del 50% del peso viene recuperato entro 2 anni e l’80% entro 5 anni.
Le diete a basso contenuto di carboidrati (spesso scelte dalle persone con un disturbo alimentare) promettono perdite rapide di peso nel breve termine e questo è vero in quanto se una dieta ben bilanciata produce un deficit dietetico di 500 kcal al giorno che permette di perdere circa 0,5 kg a settimana, le diete iperproteiche fanno perdere 2-3 kg nella prima settimana, creando entusiasmo ma anche alte aspettative e speranze. Questa maggiore perdita di peso è dovuta ad un aumento della diuresi e, conseguentemente, una riduzione della sensazione di gonfiore. Quindi questa maggiore perdita di peso, legata a una maggiore perdita di acqua nel corpo, è limitata alla prima settimana, successivamente la perdita di peso va di paro passo con le regole del bilancio energetico e non della composizione della dieta. Questo vuol dire che a parità di bilancio energetico, il fatto che una dieta sia iperproteica o mediterranea, non ha influenza sul peso perso (Johnstone et al., 2014). La dieta mediterranea si associa a importanti benefici sulla salute, come la prevenzione di malattie cardiovascolari e di alcuni tumori.
Queste informazioni sono importanti anche alla luce del lavoro che come psicoterapeuti dovremmo affrontare con le pazienti affette da un disturbo alimentari, disturbi caratterizzati da preoccupazioni eccessive nei confronti del peso, della forma del corpo e dell’alimentazione, che seguono regole dietetiche rigide e estreme che, se portate avanti in modo costante portano a sintomi da malnutrizione e sottopeso caratteristici dell’Anoressia Nervosa o, se interrotti da perdite di controllo sull’alimentazione (abbuffate) esitano nella Bulimia Nervosa e nel Binge Eating. Il lavoro di riabilitazione nutrizionale con queste pazienti è una parte importante del trattamento e una strategia fondamentale nell’ambito della terapia cognitivo-comportamentale migliorata (CBT-E) e prevede l’adozione dell’alimentazione regolare strutturata in 3 pasti più 2 spuntini pianificati in anticipo in modo da ridurre il rischio delle abbuffate, le preoccupazioni per l’alimentazione, la sensazione di pienezza (legata al ritardo nello svuotamento gastrico) e dare struttura alla giornata alimentare. Qualsiasi dieta che preveda ulteriori restrizioni (es. nei carboidrati) non solo non è utile ma è addirittura dannosa con queste pazienti (ad eccezione di quelle che hanno un’indicazione medica per dover eliminare alcuni alimenti, es. per allergie o celiachia), il cui obiettivo è uscire da un disturbo dell’alimentazione e quindi portare avanti un’alimentazione flessibile e sostenibile, riducendo le preoccupazioni tipiche del disturbo, conseguenza dell’eccessiva valutazione di peso, forma del corpo e alimentazione e del loro controllo. Aiutare le pazienti ad affrontare i fattori di mantenimento del disturbo significa aiutarle a superare la paura che certi alimenti abbiamo un potere ingrassante di per sè, a pesarsi una volta a settimana per non dare valore pesandosi troppo frequentemente a minime variazioni di peso legate ai cambiamenti nello stato idrico del corpo, ridurre le preoccupazioni per la forma del corpo insegnando loro a guardarsi in modo realistico, investire e trarre piacere da altri ambiti di vita fonte di autostima come le relazioni sociali, danneggiate profondamente dal disturbo alimentare.
E’ ormai dimostrato che il cervello maschile e quello femminile presentano differenze sostanziali che influenzano il modo in cui uomini e donne pensano, sentono, si comportano, comunicano, danno significato a ciò che accade. Grazie all’evoluzione delle tecniche di neuroimaging è stato possibile osservare le diverse attivazioni cerebrali e avere anche una base neuroscientifica a ciò che fino ad oggi veniva solo descritto da molte coppie. Tali differenze incidono anche nel modo in cui vengono vissuti attrazione, scelta dei partner, innamoramento, amore, rottura della relazione dagli uomini e dalle donne, sebbene è importante ricordare che nell’essere umano i comportamenti sono sempre il risultato di diversi fattori, tra i quali oltre a quelli biologico-genetici, si aggiungono quelli individuali (storia di sviluppo, ambiente familiare di crescita) e culturali. Conoscere tali differenze aiuta moltissimo a comprendere meglio l’alterità e ad accettarla entro certi limiti. Quante volte le donne si lamentano per il fatto che i loro partner riescono a fare al massimo una cosa per volta, mentre loro in quel tempo ne hanno fatte almeno tre diverse? Questo aspetto è molto spesso causa di litigi e discussioni ma ahimè è tutta colpa del cervello!!!! Il nostro cervello è diviso in due emisferi: 1)l’emisfero destro e quello sinistro. Il primo è responsabile del linguaggio, delle capacità logico-analitiche, della tendenza alla precisione e attenzione ai dettagli, consente pianificazione e esecuzione di azioni; 2) l’emisfero destro è meno analitico, più in grado di cogliere la complessità di una situazione presa nel suo insieme, è responsabile della tendenza a essere creativi, è intuitivo. Molto grossolanamente si può dire che l’emisfero sinistro è quello logico-razionale, il destro quello delle emozioni. Gli uomini utilizzano maggiormente il sinistro, le donne il destro. Inoltre il fascio di fibre che unisce i due emisferi detto corpo calloso, è più grande nelle donne e questo porta a un maggior utilizzo di entrambi da parte delle donne, grazie a un maggior accesso ad entrambi garantito da connessioni più estese. Quali conseguenze?
Gli uomini sono più orientati ai dettagli, sono attenti alle parole, al contenuto di ciò che ascoltano per capire il problema di fondo, mentre le donne, che utilizzano maggiormente entrambi gli emisferi quando si tratta di parlare e ascoltare, tendono a parlare di più, usare più parole, a esprimersi in modo più ricco, a fare considerazioni. Queste differenze spiegano perché gli uomini tendono spesso a infastidirsi di fronte al fiume di parole della partner e lei, vedendo che non è ascoltata, reagisce offesa sentendosi non amata.
Le donne riescono a fare più cose contemporaneamente perché l’emisfero destro consente di operare in parallelo (fare più cose insieme), a differenza del sinistro (maggiormente usato dai maschi) che consente di operare in seriale (una cosa alla volta). Conoscere come alcune delle differenze tra uomo e donna possano influenzare le modalità comunicative e comportamentali può essere di grande aiuto per avere un atteggiamento più comprensivo e adattarsi meglio all’altro cercando trovare quel giusto compromesso anche sulla base dei suoi limiti e delle sue risorse. Certo non è possibile generalizzare, ci sono profonde differenze tra le persone, indipendentemente dalla biologia, determinate dall’incontro di questa con le influenze ambientali ricevute nel corso dello sviluppo.
Da un punto di vista evoluzionistico, come esseri umani ci siamo evoluti in modo da garantirci sopravvivenza e propagazione del patrimonio genetico attraverso la riproduzione; pertanto anche se gli uomini e le donne di oggi vivono in condizioni molto diverse da quelle dell’uomo della caverna, certe spinte evolutive sono rimaste e influenzano in parte tutte le fasi dell’amore. Ad esempio sapete che gli uomini vengono attratti dalla bellezza e dalla giovane età della partner e questo influenza la scelta? Per bellezza si intende una certa armonia nelle proporzioni del corpo e del viso, che si possono mantenere nonostante il cambiamento che i canoni estetici subiscono nel tempo. Questo perché una donna bella e giovane è anche in grado di portare avanti una gravidanza e di trasmettere dei geni sani; questa influenza esiste anche se non è, evidentemente, rigidamente determinata. Le donne invece sono meno sensibili alla bellezza fisica e più all’intelligenza di un uomo, al suo status sociale, alle risorse economiche di cui dispone, alla sua disponibilità a creare un rapporto stabile. Questo perché? In origine, a differenza della situazione attuale in cui molte donne possono provvedere materialmente alla prole anche senza l’aiuto di un partner, la donna che sceglieva un partner in grado di fornire cibo e protezione a lei e alla prole era più probabile che riuscisse a far crescere i figli e quindi garantire la propagazione dei geni. Non è così lontano da quello che osserviamo nella nostra società attuale: donne giovani in coppia con uomini maturi, non necessariamente così aitanti, ma con ruoli di potere, ricchi e uomini con donne molto belle e giovani. Esistono ovviamente anche casi opposti. Ricordiamoci che la biologia non è tutto, non determina strade uniche e determinate, siamo esseri umani e per nostra natura molto più complessi dei nostri amici animali.
C’è un’altra differenza tra cervello maschile e femminile molto curiosa. Sia nell’uomo che nella donna la frequenza dei rapporti sessuali garantisce una produzione massiccia di ossitocina (soprattutto nelle donne) e vasopressina (soprattutto negli uomini) che favoriscono il passaggio da un legame basato sull’attrazione e il desiderio a un legame più propriamente affettivo. Nell’uomo la maggiore produzione di vasopressina, neurormone secreto dall’ipotalamo, è responsabile della sensazione di possesso, di gelosia, della territorialità, è ciò che spinge l’uomo a sentire la partner come un individuo di sua proprietà e a star male se il suo possesso sfugge o anche solo viene sospettato. L’ossitocina, prodotta in maggiore quantità nel cervello femminile, responsabile delle contrazioni che inducono il parto e prodotta a seguito della stimolazione dei capezzoli durante l’allattamento, si associa alla sensazione di benessere, calore, al comportamento di cura e protezione, e a quella fiducia relazionale che caratterizza le donne molto più degli uomini
I disturbi dell’alimentazione sono disturbi complessi da un punto di vista sia psichico sia organico e molto diffusi nella popolazione generale; le stime di prevalenza si attestano attorno al 5-15%. La massima incidenza di questa disturbi la troviamo nella fascia di età 14-18 anni, quindi nella prima adolescenza. Questa è la ragione per cui è di estrema importanza riconoscere tempestivamente i primi segni di disturbo alimentare e intervenire con trattamenti efficaci e specialistici, evitando in questo modo la cronicizzazione del disturbo e le conseguenze negative su un piano medico, psichico, sociale e familiare.
I sintomi alimentari sono dei rimedi, delle strategie utilizzate dai pazienti per controllare problemi psicopatologici più profondi quali: un senso pervasivo di inefficacia personale (i pensieri, le azioni, i bisogni sono etero-determinati, non originano attivamente dall’interno), difficoltà a identificare le emozioni, le sensazioni, gli stati interni, identità personale fragile/non strutturata (che va oltre la diffusione d’identità tipica della fase evolutiva adolescenziale), focalizzazione sull’immagine corporea e sua distorsione. L’autostima personale, il proprio senso di efficacia personale, che caratterizza ogni essere umano e che si gioca in vari domini esistenziali, in pazienti con disturbo alimentare si gioca in un unico dominio che è quello del controllo del peso e dell’alimentazione. Le strategie di controllo sono il bersaglio del trattamento, ma è importante riconoscere come terapeuti e far riconoscere ai pazienti, il significato e la funzione che svolgono, prima di poter pensare di motivare al trattamento; esse sono tese a ridurre il senso di pericolo e di vulnerabilità percepita. Il nucleo psicopatologico dei DCA è costituito da convinzioni nucleari profonde che oscillano tra le polarità competente/efficace e incompetente/inefficace. I pazienti cercano di rappresentarsi mentalmente come efficaci attraverso un controllo estremo e rigido dell’alimentazione e la perdita di peso. Tali strategie di controllo sono efficaci nell’anoressia (AN), parzialmente efficaci nella bulimia (il controllo è interrotto dalle abbuffate) e inefficaci nel disturbo da alimentazione incontrollata.
Nel trattamento degli adolescenti, così come negli adulti con AN, è necessario tenere presente le conseguenze organiche del disturbo che variano a seconda dell’età, della durata di malattia, della gravità del sottopeso: alterazioni cardiache, endocrine, elettrolitiche, del metabolismo osseo, ematologiche e gastro-enteriche. E’ necessario conoscere gli effetti del sottopeso anche sul piano cognitivo, emotivo e sociale: aumento dell’irritabilità, della depressione, dell’ansia, deficit dell’attenzione e di memoria, aumento dell’ossessività e bisogno di certezza, isolamento sociale e riduzione del desiderio sessuale.
Il trattamento cognitivo-comportamentale migliorato per gli adolescenti (CBT-Ea) è stato sviluppato nel 2008 presso l’Unità Funzionale di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda in collaborazione con il Prof. Fairburn dell’Università di Oxford e deriva dalla CBT-E per gli adulti. Le linee guida NICE (2017) hanno inserito questo trattamento tra gli interventi supportati da evidenze scientifiche per gli adolescenti con DCA, rappresentando oggi una valida alternativa al trattamento basato sulla famiglia. Si tratta di un trattamento non complesso da comprendere e ricevere, che include strategie per ingaggiare e motivare il paziente facendolo sentire parte attiva del percorso di cura e in controllo (aspetto importante per questa tipologia di pazienti), che adotta un approccio flessibile adattabile alle differenze individuali. Gli obiettivi dell’intervento sono quattro: 1) Motivare il paziente nella decisione di cambiare, un assunto fondamentale è che non vengano adottate strategie prescrittive o coercitive che aumenterebbero solo la resistenza al cambiamento della persona; 2) Affrontare la psicopatologia del DCA: basso peso (se presente), modo sbagliato di alimentarsi, preoccupazione per l’alimentazione, peso e forma corporea, comportamenti estremi di controllo del peso (uso diuretici e lassativi, eccessiva attività fisica, abbuffate e vomito auto-indotto); 3) Correggere i meccanismi di mantenimento del disturbo (specifici del paziente, ad es. il perfezionismo clinico); 4) Assicurare il mantenimento dei cambiamenti ottenuti e prevenire le ricadute. L’intervento adotta strategie cognitivo-comportamentali, sebbene si favoriscano principalmente cambiamenti strategici nel comportamento per ottenere cambiamenti cognitivi (nel modo di pensare). I genitori vengono coinvolti nel trattamento, sebbene questo non sia sempre necessario, e lo psicoterapeuta deve aiutarli a comprendere il funzionamento del disturbo, la natura del trattamento e il loro ruolo di supporter nell’evoluzione dei cambiamenti del figlio/a. Devono essere aiutati a eliminare le critiche e l’eccessivo controllo, due aspetti spesso presenti in queste famiglie, data l’estrema preoccupazione per la salute del figlio. Previo consenso del paziente, i genitori possono essere coinvolti nell’aiutarlo/a ad applicare alcune strategie e procedure del trattamento. In linea generale vengono visti alla fine di una seduta individuale paziente-terapeuta, con il paziente per circa 15 minuti e con una frequenza di una volta ogni 5 sedute.
Le ricerche condotte sino ad oggi sembrano indicare un’ efficacia superiore di questo trattamento negli adolescenti, che raggiungono obiettivi di peso salutare (IMC< 19) in tempi più brevi.